Onorevoli Colleghi! - Mai come nell'attuale temperie la bufera dell'antipolitica ha attraversato così violentemente le istituzioni democratiche e politiche del Paese. Dall'avvento della cosiddetta «seconda Repubblica» si era diffuso l'illusorio convincimento di una rigenerazione del sistema politico e dei partiti, che la corruzione e il clientelismo, con cui la classe dirigente sino al 1989 aveva colpito la coscienza dell'opinione pubblica, fossero ormai fenomeni ricondotti entro livelli fisiologici e che si apriva una fase di rinnovati rapporti tra i cittadini e i partiti. Purtroppo queste speranze sono andate profondamente deluse: il livello di corruzione è, se non superiore, certamente non inferiore agli anni di «Tangentopoli», i partiti sono ancora più deboli e oggi la politica rappresenta per molti un sistema perverso di intrecci di affari e interessi personali che nulla hanno a che vedere con l'interesse generale, con conseguente grave e pericolosa delegittimazione delle istituzioni democratiche.
      Il corollario di questa percezione, purtroppo, è che i partiti non sono più visti come il giusto luogo di raccordo tra la società e le istituzioni, secondo quella funzione ad essi attribuita dalla nostra Costituzione repubblicana. Nei cittadini è diffusa ormai un'insofferenza generalizzata nei confronti dei partiti e dei politici, visti il più delle volte, i primi, come luoghi di malaffare e, i secondi, come soli persecutori di interessi personali e beneficiari

 

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di intollerabili privilegi. Simili tendenze hanno avuto esplosioni cicliche e hanno preso corpo anche in grandi manifestazioni di massa attraversate da preoccupanti e violenti rigurgiti di qualunquismo e di populismo: per quanto deprecabili, esse hanno tuttavia denunciato dei problemi reali o, comunque, percepiti così dall'opinione pubblica.
      Eccessivi sono i privilegi che sono appannaggio della classe politica, numerose sono le istituzioni statali che non hanno alcuna utilità se non quella di assegnare stipendi agli eletti, inaccettabili sono le norme che permettono la creazione di clientele, troppi sono gli strumenti che finiscono per incentivare l'intreccio diabolico tra affarismo e politica, innumerevoli sono gli sprechi.
      Questo coacervo di elementi impone al Parlamento di intervenire per ridare dignità alla politica e alle istituzioni democratiche e per dimostrare ai cittadini che il denaro pubblico può essere utilizzato in modo produttivo per assicurare servizi e non, invece, per garantire privilegi di pochi.
      Per fare questo occorre essere rigorosi a partire da noi stessi, adottando delle misure che sappiano colpire quei gangli del sistema dove si annidano le clientele, l'affarismo e i privilegi. Solo se riusciremo a dare delle risposte pronte e rigorose eviteremo che la nostra Repubblica sia travolta da un'immane ondata di qualunquismo, che potrebbe essere terreno fertile per una involuzione in senso autoritario dello Stato.
      Si tratta di una serie di misure dure, ma non demagogiche: la necessità di ridurre drasticamente i costi della politica non deve compromettere il principio per cui alla gestione della cosa pubblica possano e debbano partecipare tutti i cittadini, a prescindere dal loro reddito e dalla loro capacità economica. La disposizione di cui all'articolo 69 della Costituzione, secondo cui i membri del Parlamento ricevono un'indennità stabilita per legge, permette a tutti di essere eletti nell'organo costituzionale più alto della nostra democrazia e di determinare parimenti la legislazione statale.
      La presente proposta di legge, da un lato, ha l'obbiettivo di eliminare drasticamente gli sprechi che si consumano nelle istituzioni che reggono la Repubblica, cancellando contemporaneamente quei privilegi che in molti casi rendono la politica invisa ai cittadini, e, dall'altro lato, cerca di eliminare la possibilità che proliferino politiche clientelari, sciogliendo l'intreccio tra affari e politica.
      L'articolo 1 riforma la disciplina in materia di incompatibilità per gli eletti, stabilendo che nessuno può ricoprire contemporaneamente la carica di parlamentare, Ministro, Sottosegretario di Stato, membro del Parlamento europeo, presidente di giunta regionale, assessore e consigliere regionale, presidente della provincia, assessore e consigliere provinciale, sindaco, assessore e consigliere comunale.
      È ormai costume diffuso, infatti, che taluni soggetti ricoprano contemporaneamente più incarichi, determinando, da un lato, un certo immobilismo nella classe politica, produttivo di incrostazioni, che rende assai più opaco il funzionamento e il fisiologico e democratico ricambio, e, dall'altro lato, impedendo che l'ufficio elettivo ricoperto sia svolto con il necessario impegno. Si tratta di una norma che, in realtà, non incide sui «costi della politica» in misura rilevante, ma che, tuttavia, potrebbe favorire il ricambio generazionale e garantire una maggiore efficienza delle istituzioni democratiche.
      L'articolo prevede, infine, che chi si trovi nella suddetta situazione di incompatibilità la risolva entro trenta giorni, optando per una delle cariche che in quel momento ricopre.
      L'articolo 2 sviluppa l'impostazione che è già alla base del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, che vieta la costituzione di nuovi comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti e incentiva la fusione dei piccoli comuni. Contemporaneamente, il medesimo testo
 

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unico permette la formazione delle unioni di comuni, con il compito di svolgere in modo coordinato taluni servizi.
      La norma proposta, proseguendo in questo alveo, obbliga le regioni, entro l'anno 2015, a provvedere, sentite le popolazioni interessate, all'istituzione di nuovi comuni con popolazione non inferiore a 10.000 abitanti, mediante la fusione di tutti i comuni limitrofi preesistenti con popolazione inferiore a 10.000 abitanti. Conseguentemente, sono abrogate tutte le unioni di comuni, che in questo scenario perdono di utilità e che, anzi, hanno rappresentato negli ultimi anni solo un'occasione di moltiplicazione di cariche elettive e, pertanto, di aumento della spesa pubblica.
      In questo modo si eliminano migliaia di sindaci e di giunte che per le ristrettezze economiche dei loro bilanci non sono in grado di risolvere i reali problemi dei paesi da essi amministrati, senza pregiudizio, ovviamente, del principio della rappresentanza e con grande beneficio dei cittadini, poiché le risorse liberate da questa drastica riduzione potranno essere utilizzate per servizi utili ai cittadini.
      Per evitare, tuttavia, che la suddetta fusione comporti maggiori difficoltà nella fruizione dei servizi per i cittadini, si stabilisce che debbano essere assicurate adeguate forme di decentramento dei medesimi servizi.
      L'articolo 3 della presente proposta di legge sostituisce l'articolo 17 del citato testo unico, mantenendo le circoscrizioni comunali e i municipi solo per i comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti e sopprimendo tutti gli altri tuttora esistenti. In molti casi, infatti, i comuni hanno provveduto all'istituzione di circoscrizioni anche molto piccole senza attribuire loro alcuna funzione, con l'unico scopo di moltiplicare i posti di governo e le cariche elettive, con grave ricaduta dei costi di questa scelta sui cittadini e sui servizi. Tale articolo, dunque, valorizza il decentramento lì dove esso è utile, eliminando contemporaneamente gli sprechi che dal decentramento derivano lì dove esso ha vantaggi ridottissimi e costi enormi.
      L'articolo 4 sopprime le comunità montane e le comunità isolane. Si tratta di enti locali dalla ridotta capacità di intervento sul territorio, causa di moltiplicazione di apparati la cui utilità risulta, peraltro, ulteriormente superflua a seguito della fusione prevista dall'articolo 2 della presente proposta di legge di tutti i comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti.
      L'articolo 6 limita la possibilità delle giunte, degli assessori, dei sindaci e dei presidenti di provincia di istituire uffici di supporto agli organi di direzione politica: in particolare si provvede a limitare nel numero i soggetti che possono comporre tali uffici e si attribuisce tale facoltà alle sole province e ai comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti, fermi restando i vincoli per gli enti locali che si trovano in dissesto finanziario.
      Con il comma 2 del novellato articolo 90 del citato testo unico si introduce un limite agli emolumenti che i soggetti eventualmente assunti possono percepire, statuendo che non possono essere superiori a quelli di un dirigente di massimo livello dell'amministrazione interessata.
      Con questa disposizione, insieme a quelle di cui agli articoli 7, 8 e 11 della presente proposta di legge, si pone un freno al fenomeno delle assunzioni e del conferimento di incarichi di consulenze, anche tramite la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, anche di soggetti esterni alla pubblica amministrazione, nei Ministeri, nelle regioni e negli enti locali, senza che sia svolto un apposito concorso pubblico. È questa, infatti, una consuetudine che si è stabilizzata all'interno della pubblica amministrazione, che ha come conseguenze il proliferare di contratti precari, la crescita di politiche clientelari e l'entrata all'interno della stessa pubblica amministrazione di personale di «matrice» politica che spesso non ha le caratteristiche idonee per svolgere quell'ufficio che solo un concorso pubblico regolarmente svolto può assicurare.
 

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      L'articolo 7, infatti, pone un limite analogo, sia nel numero dei soggetti che possono essere assunti che nella loro retribuzione, al Presidente del Consiglio dei ministri, ai Ministri e ai Sottosegretari di Stato, ferma restando la possibilità di disporre dei dipendenti della pubblica amministrazione.
      L'articolo 8, poi, elimina la possibilità attualmente concessa agli enti locali di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato, allo scopo di sradicare il fenomeno del precariato all'interno delle pubbliche amministrazioni.
      L'articolo 9 pone delle incompatibilità per chi svolge o ha svolto la funzione di segretario comunale, provinciale o di dipendente comunale o provinciale. Per evitare il perverso conflitto di interessi che molte volte si sviluppa in numerose amministrazioni locali, la norma stabilisce che i suddetti soggetti, infatti, non possono svolgere le funzioni di presidente o di membro del consiglio di amministrazione di aziende municipalizzate o di enti pubblici, rispettivamente, del medesimo comune o provincia presso cui prestano o hanno prestato servizio, ovvero di società dagli stessi partecipate.
      L'articolo 10 limita la possibilità di nominare il direttore generale del comune alle sole città metropolitane e ai comuni con più di 500.000 abitanti, stabilendo contemporaneamente un tetto alla loro retribuzione e vietando l'assunzione di qualsiasi collaboratore esterno all'amministrazione stessa.
      L'articolo 11 elimina la possibilità per le amministrazioni degli enti locali di conferire incarichi a contratto.
      L'articolo 12 regola la materia delle nomine all'interno delle commissioni, dei consigli di amministrazione, dei collegi sindacali e dei revisori dei conti delle aziende e degli enti pubblici statali, regionali e degli enti locali nonché delle commissioni ministeriali e interministeriali e delle società pubbliche non quotate, stabilendo che chi ricopre questi incarichi deve svolgerli a titolo gratuito, senza poter percepire alcun emolumento, con l'eccezione di un rimborso delle spese sostenute per l'incarico svolto. Si tratta di una norma volta a impedire che le nomine all'interno di tali organi possano essere utilizzate dall'amministrazione per perseguire fini clientelari e, contemporaneamente, garantire ingenti risparmi di spesa per i cittadini, liberando risorse pubbliche che potranno essere utilizzate per offrire loro maggiori servizi.
      Il successivo articolo 13 vieta ai medesimi soggetti di cui all'articolo 12 di avvalersi di persone esterne all'ente o alla società stipulando contratti a titolo oneroso che ricadano sullo stesso ente o società.
      L'articolo 14 istituisce presso il Ministero dell'economia e delle finanze la Commissione nazionale per il riordinamento e la razionalizzazione del sistema delle aziende pubbliche e delle società a partecipazione pubblica degli enti locali, con il compito - entro due anni dal suo insediamento - di realizzare un censimento di tutte le aziende esistenti e di proporre al Ministro dell'economia e delle finanze un piano per il riordino, la soppressione e la messa in liquidazione di quelle ritenute inutili o superflue.
      L'articolo 15 mira a contenere il fenomeno delle cosiddette «esternalizzazioni». Nato con l'intento di abbattere, per taluni servizi pubblici che possono essere anche svolti da privati o da aziende a partecipazione pubblica, i costi per i cittadini, esso ha invece prodotto un aumento vertiginoso dei costi, con l'aggravante che il personale che lavora presso le suddette aziende spesso non è qualificato ed è sottoposto a forme di sfruttamento che non possono essere tollerate da un ente pubblico. Tale norma, infatti, vieta alla pubblica amministrazione, ai Ministeri, alle regioni, agli enti locali, agli enti pubblici nonché alle aziende a partecipazione pubblica di attribuire a società o ad altri soggetti esterni, anche se a totale o parziale partecipazione pubblica, l'appalto di servizi o di attività che possono essere svolti attraverso uffici dell'ente stesso, anche da costituire appositamente, o tramite personale da assumere attraverso appositi concorsi.
 

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      L'articolo 16 vieta alle regioni (e agli enti locali) di aprire uffici presso l'Unione europea e presso Paesi esteri. Tale prassi, diffusasi dopo la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, che ha introdotto implicitamente la possibilità per le regioni di intrattenere rapporti internazionali, ha prodotto l'apertura di decine di uffici in tutto il mondo, la cui utilità è pressoché nulla se paragonata al dispendio di denaro pubblico che da essa deriva.
      L'articolo 17 introduce un tetto alla retribuzione dei parlamentari, sia nazionali che membri del Parlamento europeo. In particolare è stabilito che l'indennità, sino ad ora agganciata alla retribuzione annua lorda dei magistrati con funzioni di presidente di cassazione, non può essere superiore a 5.000 euro mensili, ferma restando la possibilità da parte degli Uffici di Presidenza delle Camere di quantificarla nell'ambito delle funzioni ad essi attribuiti dalla legge e dai Regolamenti camerali.
      L'articolo 18 predispone una serie di misure per limitare il malcostume determinatosi all'interno delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere con l'attribuzione alle regioni del potere di nomina dei direttori generali. Si tratta di un meccanismo che ha come corollario la perdita di professionalità di queste figure, che per poter ottenere la nomina devono accreditarsi presso l'uno o l'altro partito politico; questa procedura inoltre, ricadendo sulla nomina dei primari, ha degli effetti nefasti in primo luogo sui cittadini.
      Per contrastare tale fenomeno, la norma prevede che, a decorrere dal 1o gennaio 2008, il direttore generale delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere è nominato mediante concorso per titoli ed esami da una commissione regionale nominata dall'assessore regionale competente per la sanità e composta da medici con almeno quindici anni di iscrizione all'albo e da docenti ordinari di materie mediche, che risiedono o lavorano da almeno dieci anni in un'altra regione.
      L'articolo 19, infine, abroga quella parte dell'articolo 7 della cosiddetta «legge La Loggia» (legge n. 131 del 2003), che permette alle regioni di nominare due membri aggiuntivi delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Come è noto, dopo l'eliminazione della maggior parte degli uffici di controllo degli atti delle regioni e degli enti locali, gli unici soggetti che svolgono il suddetto ruolo sono le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. L'abrogazione proposta tende ad eliminare il circuito vizioso determinato dal fenomeno per cui l'ente controllato (la regione) nomina membri nell'ente controllante (la sezione regionale di controllo della Corte dei conti), rafforzando in quest'organo le caratteristiche di terzietà e di indipendenza.
 

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